Intervista a Davide Lopez sul libro: Schegge di sapenza, frammenti di saggezza e un po’ di follia
Ancora sull’invidia: la paura dell’invidia altrui può inibire e, suggerisce Schoeck, per difendersi da tale invidia si può ricorrere ad una sorta di manovra diversiva che consiste nel dare in pasto all’invidioso qualche piccola disgrazia, proprio come l’offerta sacrificale degli antichi che serviva a placare l’invidia degli dei. Ma non è forse questo un modo per accreditare le “ragioni” dell’invidia? E non rappresenta dunque, questa tattica, un segno del convincimento megalomanico a proposito della propria superiorità, che, però, viene al contempo sentita come fragile e facile a venire distrutta?
Risponderò brevemente alla sua seconda domanda che ho in parte esaurita precedentemente. Durante l’epoca del sacrificio si dava in pasto agli invidiosi gran parte di ciò che si possedeva per assicurarsi almeno la vita. In seguito, in epoche più “civili” ci si limitava a pagare lo scotto con una tangente autoimposta, con un’autolimitazione psicologica ed economica, come consiglia il filosofo inglese Francesco Bacone. Tra parentesi, Bacone non mi è mai stato simpatico. In breve, il mio punto di vista su questo argomento è alquanto diverso. La saggezza non sta tanto nel tacitare l’invidia del benedetto prossimo tuo, il che sarebbe un espediente di furbizia alquanto goffo e scadente, quanto piuttosto nel preferire un modo di vita semplice e sobrio, non esibizionistico, che oltrepassa il determinismo implicito nella paura del superio sociale invidioso, ed è invece manifestazione di libera scelta consapevole, libera. Si dovrebbe vivere seguendo liberamente i propri princìpi, modelli e ideali, quasi sempre moderati con sprazzi di lieve follia, senza curarsi troppo dell’invidia e del moralismo, spesso congiunti, del prossimo. Personalmente non mi curo affatto dell’invidia sociale, proprio perché sono contento delle mie scelte di vita: non sono soggetto all’azione del doppi ruoli e, quindi, non avverto neppure l’invidia degli altri.
In particolare, mi pare abbastanza significativo un passaggio che possiamo così sintetizzare: la colpa per il passato, per “il già fatto”, asservisce senza possibilità di riparazione autentica, culla nell’autoflagellazione senza accogliere le responsabilità dei danni attuali. In questo passaggio, il pensiero freudiano è sottoposto a disamina per quanto attiene alla mancata distinzione tra istinto di morte (destino umano?) e colpa, così come l’etica Kantiana viene sottoposta a critica, sviluppando in alternativa un percorso che dalla consapevolezza conduce alla responsabilità. Che significato ha dunque la responsabilità in un contesto avulso dalla colpa? Possiamo pensare che la colpa, che ritengo peraltro sia intrecciata strettamente al sentimento di vergogna, sia una modalità narcisistica di espiazione, rivolta più a sé e alla propria immagine che non all’altro cui si è fatto torto, mentre la responsabilità è fattiva assunzione di autentica volontà di riparazione e superamento? Mi pare che, a questo proposito, un aforisma ripreso più volte nel corso del libro sia illuminante: “il sano egoismo è simultaneamente verace altruismo”, affermazione questa che rompe il pernicioso legame tra amore, altruismo, colpa e sacrificio. Come si lega questo concetto alla considerazione marxiana “tu puoi scambiare amore solo con amore?” e come si lega alla affermazione seguente: “l’amore per l’altro è più centrale e vitale del proprio egocentrismo”, “l’amore della coppia prevale sui gretti interessi individuali”?
Trovo la sua terza domanda insidiosa, ma di notevole interesse. Cercherò di rispondere con la mia solita maniera trasgressiva. Delle cosiddette responsabilità del passato non mi curo, non me ne assumo parte alcuna, non mi riguardano: la storia l’hanno fatta gli altri! Piuttosto, la parola responsabilità non mi è gradita, perché alla sua origine responsabile significa colpevole. L’identificazione tra responsabilità e riparazione è pericolosa perché innesta un circolo vizioso che mai si arresta: sentimento di colpa, in quanto implicitamente narcisismo onnipotente, come lei accenna, implica immediatamente, proprio perché non analizzato, tendenza riparativa che incrementa, in coloro che si nutrono e sono avidi di colpe altrui, la pretesa di ulteriore, sempre maggiore, riparazione fino all’assoggettamento. Si riproduce , così, la dialettica schiavo-padrone in un circolo vizioso che produce alla fin il corto circuito della guerra. Questo sta avvenendo nel cozzo irreparabile fra civiltà occidentale e alcune correnti aggressive e micidiali dell’islamismo. Per quanto mi riguarda, come tutti riconosco alcune colpe nel mio passato, che ho cercato in qualche modo di riparare. Vi sono colpe che sono riconosciute nella consapevolezza come vere, e colpe sostenute e mantenute dalla collusione narcisismo-masochismo, di cui a lungo ho parlato, che assumono carattere parassitario. Sono anni, ormai, che mi sento libero da colpe: in pratica, non ne commetto più. Preferisco, quindi, di gran lunga parlare di consapevolezza piuttosto che di responsabilità. Anni fa, in un Congresso a Milano, là dove si parlava fino alla nausea della responsabilità, sostenni la libertà della irresponsabilità. Come ho sostenuto nel libro, la sola riparazione concepita come sana è quella di pervenire ad un rinnovato candore, dove la consapevolezza non implica il “non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te”-vecchia formula dell’accorta saggezza- ma, piuttosto, positivamente favorire, per quel che si può, nell’altro o negli altri, compresi i popoli, quell’emancipazione che è stata il risultato gioioso di un lungo e travagliato percorso di ascesa verso il Giardino dell’Eden della genitalità e della persona. Accetto lietamente il ricordo, nelle sue parole, di alcuni miei detti, compreso quello di Marx che sintetizza la reciprocità nell’amore sano. In verità, questo aforisma di Marx, bene inteso, equivale al mio aforisma “il sano egoismo è simultaneamente verace altruismo”.